di p. Piero Puglisi
Si sono già dette un’infinità di cose riguardo alla festa di Tutti i Santi: è la festa in cui ricordiamo anche tutti quei santi che non sono iscritti nel calendario ufficiale; in cui diamo onore a quei cristiani che, pur agendo nell’anonimato e nel silenzio, hanno contribuito a rendere questo mondo più umano; è il giorno in cui veneriamo non solo le persone buone e fedeli al messaggio cristiano, ma anche coloro che appartenendo a “ogni nazione, tribù, popolo, lingua” sono state segno della presenza di Dio in mezzo all’umanità; è il momento in cui – creando un tutt’uno con la commemorazione dei defunti – ricordiamo con affetto quelle persone che abbiamo amato in questa vita, che ci hanno preceduto nell’incontro con Dio Padre, e che per noi sono state esempio di santità, cioè di bontà, di amore disinteressato, di generosità, di attenzione agli altri; è la solennità nella quale invochiamo l’intercessione di tutti i santi perché ci aiutino nel nostro cammino quotidiano verso la santità …Tutte cose giuste e sacrosante. Ma credo che, sulla scorta di quanto ascoltiamo nel famosissimo brano di Vangelo delle Beatitudini, quanto sopra elencato, possa essere condensato in un unico concetto: la ricerca della nostra felicità, della felicità come segno della santità di Dio che opera in noi. Si è santi se si è felici; nella vita di un santo, o di una persona che aspira a diventarlo, non c’è assolutamente spazio per la tristezza. E la felicità non vuol dire darsi alla pazza gioia, ridere e scherzare sempre, oppure comportarsi da superficiale e giocherellone spensierato attraverso una vita “allegra” e dedita al divertimento. Credo, infatti, che le persone che passano la loro esistenza a divertirsi e a fare baldoria, non possano dirsi felici. Quanta tristezza, quanto vuoto, quanta noia esistenziale anche oggi, nei “fuori di testa” del fine-settimana, in quanti cercano sempre di riempire il tempo tra una festa e l’altra, tra un divertimento e un viaggio di piacere … No, non si può confondere la felicità con la pazza gioia! Perché, nell’ottica del Vangelo, la ricerca della felicità coincide con la ricerca della santità. E la santità la ritroviamo in quella parolina ripetuta per ben nove volte proprio nel Vangelo delle Beatitudini: “Beati”. Essere incamminati verso la santità significa essere felici, significa essere “beati”. Che è l’esatto contrario di quello che pensa il mondo e che anche noi pensiamo, ovvero “avere fortuna”, una fortuna che suscita quasi invidia (della serie: “beato te!”, “beata lei!”). No: essere beati significa esserlo nonostante tutto, o grazie a qualcosa: ricerca dell’essenzialità, vivere nella mitezza, assumere comportamenti misericordiosi, avere purezza di cuore, semplicità quasi ingenua, ricerca della pace sempre, sopra di tutto e nonostante tutto. Non possiamo essere incamminati verso la santità, se non siamo felici; non possiamo sentirci veri cristiani se non abbiamo la felicità nel cuore; e se non l’abbiamo, Dio oggi vuole da noi che facciamo di tutto, ma veramente di tutto, per essere felici. Perché lui ci vuole così: non ci vuole martiri e sofferenti, ci vuole santi. Cioè felici. Impegniamoci, dunque, a dare pienezza di senso alla nostra vita, ad essere persone generative, capaci di aiutare questa umanità ad invertire la rotta, torniamo ad essere umani, noi per primi, aiuteremo tanti a diventare migliori, a realizzarsi, a diventare felici e perciò santi.