I beneficiari del SIPROIMI/SAI “L’Approdo” Ordinari di Girifalco, hanno inaugurato il laboratorio di pittura creativa “Rip-Arti”. I giovani migranti hanno vissuto il periodo di avvicinamento al Natale, nonostante le restrizioni dovute alla pandemia in corso, all’insegna della solidarietà e, soprattutto, della fratellanza, ripensando alla comunità di origine. Dopo una fase iniziale in cui tutti insieme abbiamo discusso su come in occidente i popoli vivono, a livello spirituale, il periodo dell’Avvento, i beneficiari si sono messi alla ricerca di una storia che potesse racchiudere i concetti di identità e di appartenenza per abbattere i muri dell’indifferenza e del sospetto. Di fronte ai tragici accadimenti di questi ultimi mesi e all’ulteriore aggravarsi della crisi umanitaria in Bangladesh, che vede giungere in Europa un numero sempre più alto di persone in fuga da persecuzioni, si è pensato di concentrare le idee analizzando le circostanze di vita dei rifugiati  che vivono una condizione di vulnerabilità dove l’incertezza e la precarietà senza prospettive sono divenute presupposto di normalità, cosi come lo sono la carenza di servizi essenziali, il mancato accesso ai beni di prima necessità e la negazione di qualsiasi partecipazione ai processi decisionali.

L’obiettivo del laboratorio è imparare ad esternare un sentimento, comunicare un’idea attraverso un’opera, senza limiti linguistici e verbali. Per mettere in pratica le idee che man mano nascevano abbiamo inaugurato un progetto che ha previsto la realizzazione di una tela pittorica e la stesura di una relazione nella quale è stato affrontato il problema del popolo Rohingya. I discenti hanno espresso la volontà di occuparsi della descrizione e della realizzazione della tela con l’intento di far conoscere a un uditorio più vasto quello che avviene nella loro terra, il Bangladesh, sia in ambito migratorio che nel settore dell’accoglienza. Di seguito una breve descrizione del progetto:

La vita della popolazione Rohingya in Myanmar è stata caratterizzata da esclusione e violenza per decenni. Ad agosto 2017, a causa di un attacco da parte dei militari birmani, circa un milione di persone ha cercato protezione nel vicino Bangladesh. Oggi 855.000 rifugiati Rohingya risiedono in 34 campi in Bangladesh. La situazione nei campi profughi è precaria. Non ci sono alloggi, cibo, servizi igienici e cure mediche. Il campo più grande si trova nel distretto di Cox’s Bazar, uno dei più poveri del Paese. Secondo i dati, oltre il 39% dei bambini presenti nei campi e il 97% degli adolescenti e giovani non frequentano alcun tipo di scuola. A tutto ciò si aggiunge il cibo scarso, il sovraffollamento (fino a 5 persone costrette in stanze da 15 metri quadrati), la scarsa assistenza sanitaria, l’acqua contaminata, e l’obbligo di restare negli alloggi. Nel golfo del Bengala, ad alcune ore di navigazione dalla città portuale bangladese di Chittagong, c’è un isolotto. La gente del posto lo chiama Thengar Char, qualcun altro Bhasan char (o Bhashan char), che in lingua bengali significa “isola fluttuante”. Venti anni fa non esisteva: si è formato con l’accumulo dei detriti del Meghna, un fiume lento e possente che nasce sull’Himalaya e finisce nella baia di Bengala. “Un’isola prigione” in cui i Rohingya vivono da confinati. Secondo quanto scritto in un Dossier da Amnesty International c’è un aumento di abusi sessuali o veri e propri stupri da parte dei poliziotti sull’isola ai danni di alcune donne Rohingya. Un’isola che è instabile. Ci troviamo infatti in una delle aree ecologicamente più fragili al mondo. Secondo il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite, il Bangladesh è il primo Paese al mondo per vulnerabilità ai cicloni, alle tempeste e alle mareggiate tropicali.

Per dare inizio al progetto abbiamo visionato insieme una serie di documentari reperibili on-line.      I racconti restituiti dai suddetti documentari hanno suscitato la commozione e l’interesse degli studenti permettendo loro di tenere fermo il legame identitario con la comunità di origine. A nostro avviso questo modo di affrontare un problema umanitario da discenti migranti, che a loro volta indagano e descrivono una parallela condizione di migrazione forzata, rientra in quel ramo della pedagogia che si rivolge alla “polifonia di voci” traducendole in un discorso unificato come un elemento distintivo del processo educativo problematizzante, democratico e partecipativo. Tra le tante voci tanti emerge l’atteggiamento oppressivo che occorre assolutamente superare e la tendenza a reprimere la libertà di espressione e a limitare le occasioni di confronto e di scambio costruttivo che nel modello pedagogico freireiano sono generatrici di nuove e plurime rappresentazioni del reale. Al contrario, occorre valorizzare la parola che produce cambiamento. Questi processi pedagogici coinvolgono l’adulto nel suo percorso di alfabetizzazione attraverso lo studio dei movimenti sociali e identitari, promuovono l’agency e l’empowerment. Se da un lato il legame con la terra d’origine non viene bruscamente troncato con il cambio di vita cui tutti i soggetti migranti sono coinvolti, dall’altro questo approccio permette di non scindere i modi con cui vengono interiorizzate le emozioni, le sensazioni e i vissuti quotidiani. Contribuisce a non creare una situazione psichica di vulnerabilità determinata dalla perdita dell’involucro culturale dei suoni, degli odori, della lingua, di tutto quello che si aveva intorno fino al momento in cui si arriva in una dimensione di estraneità che si fatica a comprendere. Il laboratorio di pittura risulta, inoltre, essere una metodologia speciale per il rafforzamento comunitario ivi comprese l’integrità organizzativa, la struttura, le procedure, i processi decisionali, l’efficienza, la divisione del lavoro e la complementarietà di ruoli e funzioni. L’abilità, presente nei singoli, di contribuire all’organizzazione del gruppo è quella di realizzare ciò che si deve fare, competenze tecniche, gestionali, organizzative e di mobilitazione. Quante più competenze (di gruppo o individuali) una comunità di discenti migranti riesce a ottenere e usare, tanto più essa ne viene rafforzata. Lo scopo finale è di supportare un condiviso senso di appartenenza a un’entità riconosciuta, nonostante il fatto che ogni gruppo porti in sé divisioni o momenti di contrasto. Il grado in cui i membri del gruppo sono disposti a tollerare le reciproche divergenze e a cooperare e collaborare, incrementa il senso di un obiettivo o una visione comune incentrati attorno a valori condivisi. Questo contribuisce a creare una organizzazione più unita, e più solidale non nel senso che tutti sono uguali, ma che ognuno tollera le reciproche differenze, lavorando per il bene comune. Questo lavoro vuole essere una scelta utopica che si fa “parola” e azione insieme e che nella lotta all’oppressione coglie un forte bisogno di recupero dell’umano.