Seppure rimanga ancora qualche preoccupazione e paura, il peggio sembra essere passato. L’emergenza Covid-19 ci ha fatto tenere il fiato sospeso per tante settimane. È stata una sorta di lunga quaresima che è continuata nel tempo pasquale. Non abbiamo celebrato come eravamo abituati il cuore dell’anno liturgico che è il Triduo pasquale. Abbiamo assistito a messe in streaming, magari mentre si facevano le pulizie di casa o altre attività. Poi il dibattito acceso sulla ripartenza, sul poter celebrare nuovamente quell’Eucarestia senza cui, come dicevano i martiri di Abitene, ‘non possiamo vivere’. Ora, con qualche titubanza, con prudenza, distanziati e mascherati, siamo tornati a celebrare in presenza l’Eucarestia. Se vogliamo però che quello che abbiamo vissuto ci insegni qualcosa, produca cambiamento, non possiamo non riflettere su quanto è accaduto. Penso che quel lungo digiuno ha messo a fuoco due aspetti dello stato di salute delle nostre comunità parrocchiali. Uno positivo: l’Eucarestia rimane il centro della nostra azione pastorale e ne abbiamo sentito la mancanza con grande nostalgia. ‘Fonte e culmine’ della vita della Chiesa, ci insegna la teologia. Niente a che vedere con le ‘cerimonie’, come sono state definite assai impropriamente dal nostro Presidente del Consiglio. Uno negativo: l’Eucarestia, nella realtà dei fatti di molte comunità, rimane l’unica presenza del cristianesimo e i nostri bravi cristiani, tolta quella, sono affogati nella paura e nella solitudine della quarantena. Io credo che, se valorizziamo quanto abbiamo vissuto, questa grande scossa che è stata il Coronavirus è da considerarsi salutare, una grande opportunità, per una svolta, per tornare ad essere discepoli, oltre che umani. Per capire che razza di dono prezioso ci è stato regalato. ‘Nella notte in cui veniva tradito’ … Ogni domenica, al momento del memoriale della cena, ripetiamo quell’inizio solenne e austero che suona potente e tragico, gravido di emozione e di conseguenze. ‘Nella notte in cui veniva tradito’, cioè nel peggior momento della sua vita. Alla fine di un percorso entusiasmante, che ha incendiato i cuori, sconvolto molte vite, guarito i più miseri tra i miseri, irritato i benpensanti. Sapeva Gesù che il tempo volgeva al termine. Il tempo del convincimento, delle parole piene di buon senso, dei sorrisi e dei miracoli, della folla festante ed accogliente … era finito. L’incomprensione era alle stelle e tutto stava precipitando. Finendo. O rinascendo. ‘Nella notte in cui veniva tradito’. Quando sai che sei alla fine, quando conti le ore, hai voglia di dare tutto, di sistemare le cose, vedere gli amici, parlare, abbracciare, goderti il creato e gustare fino in fondo la bellezza delle piccole cose. E lui che ha fatto? Ha inventato l’Eucarestia. Quella cena aveva già il sapore pasquale. Una cena fra amici, con le persone più care. Non un ricordo come intendiamo noi, in onore di chi non c’è più. Per un ebreo celebrare Pasqua significa allontanarsi dai nuovi faraoni e dalle nuove schiavitù. Ancora oggi, dunque, si fa memoria del passato per cambiare il presente. Così, quando Gesù parla di fare quel gesto in memoriale di lui, usa un termine che possiamo tradurre con ‘rifare’ questo gesto. E così facciamo. Da subito, da sempre. Con scrupolo, con verità, con la devozione più bella ed arricchente di cui siamo capaci. Da duemila anni i discepoli rifanno quel gesto, in assoluta obbedienza. Forse non abbiamo ancora compreso, noi credenti, che a messa bisogna anzitutto manifestare obbedienza. Ob-audire, ascoltare da adulti, da persone che stanno in piedi, virilmente, non in modo servile (comprendete che non sto per nulla banalizzando il gesto importantissimo e pure doveroso di metterci in ginocchio dinanzi a Colui che è il nostro unico Dio). Sì, Signore, io credo che tu sei presente in quella cena che ri-facciamo. Ci credo. Un altro cibo. Un altro cibo è stato dato al popolo in fuga dall’Egitto. Un cibo che non aveva più nulla a che vedere con le cipolle degli egiziani. Un cibo inatteso e misterioso che il popolo riconosce come donato direttamente da Dio. Abbiamo bisogno di nutrirci. Di cibo, ovvio, ma anche di affetto, di luce, di senso, di fraternità vera, di amicizia sincera e pronta a dare la vita, di felicità. E questo cibo manca: quante persone muoiono per mancanza di cura spirituale, si spengono interiormente, più che vivere si lasciano vivere e conducono così un’esistenza piatta, superficiale, senza produrre frutti, né per sé né per gli altri! Manca il cibo che ci permette di camminare, di capire il grande mistero che investe l’esistenza di ognuno di noi! Manca il cibo buono che nutre le relazioni umane, che scaccia la paura della solitudine, che dà alla nostra vita un sapore nuovo, che ci aiuta a costruire cieli nuovi e terre nuove, un mondo più giusto dove trovi casa la famiglia umana. Solo Dio ci dona il pane del cammino verso la pienezza, verso l’eternità, verso la luce. È Dio che si fa pane. Un pane capace di renderci uniti.

Il Corpo di Gesù costruisce comunità vivaci: persone diverse, di condizioni sociali eterogenee, con idee differenti; dopo avere incontrato il Signore ed essersi nutriti di lui trovano ragioni sufficienti per costruire comunione. Quando le comunità danno l’impressione di scivolare nella rissa, travolte da contrapposizioni fra esperienze diverse, dalle gelosie e dalle invidie, dall’appartenenza a questa o a quella fazione, dal legame verso l’uno o verso l’altro, che dolore, quante divisioni! Il rischio di frammentarci è sempre dietro l’angolo, spesso è un problema che arriva all’improvviso. In questi casi, cosa fare? Quando ci frammentiamo così tanto, prendiamo il frammento che ci unisce. Il pane spezzato riporta all’unità, all’essenziale, al centro, e ci ricorda qual è la nostra vocazione, il senso del nostro stare al mondo, il ruolo dei battezzati, il destino a cui siamo chiamati … Siamo cristiani perché Cristo ci ha chiamato, ci ha scelto. La Chiesa non è il circolo dei bravi che pregano Dio, ma la comunità dei diversi radunati nell’Unico. L’Eucarestia, allora, diventa il catalizzatore dell’unità.

Nell’impegnativo discorso fatto da Gesù dopo la moltiplicazione dei pani nel vangelo di Giovanni, Gesù parla esplicitamente della sua carne da mangiare e del suo sangue da bere. Discorso scandaloso, incomprensibile, che pure preannuncia il gesto che, da lì a qualche tempo, compirà come ultimo dono fatto alla comunità. Non ad una comunità ideale, perfetta, ma ad un gruppo di persone cariche di limiti e segnate pure dal peccato.  Non dobbiamo scandalizzarci per la povertà delle nostre comunità, per la pochezza del vangelo così come viene vissuto da noi cristiani. Il Verbo si fa carne (la carne è proprio il segno della debolezza e della fragilità), si consegna alle mani di un povero prete, colmo di difetti, segnato da contraddizioni, carico di debolezze e di fragilità anche lui. E, facendo questo, Gesù chiede ai discepoli di condividere la sua stessa vita. Ecco cos’è l’Eucarestia. Non è un problema di lingua o di rito, ma di fede. Certo: sarebbe cento volte meglio se le nostre assemblee fossero più accoglienti, cantassero sempre canti belli e intonati, e se le nostre chiese fossero davvero luoghi ospitali che aiutano ad alzare lo sguardo. Ma è inutile illudersi: quello che ancora manca alle nostre liturgie è la certezza che il Signore si rende presente. Manca la fede. Da qui possiamo ripartire. Abbiamo tra le mani un fuoco che può cambiare l’universo e anche ciascuno di noi. Si tratta di un fuoco d’amore. ‘Fuoco sono venuto a portare sulla terra’ (Lc 12,49), ha affermato d’altronde il Signore. Ma noi ci lasciamo consumare da questo fuoco? In altre parole, crediamo abbastanza nella presenza reale di Gesù? L’Eucarestia ha una forza di attrazione che ci coinvolge o ci sottraiamo facilmente? A guardare le nostre assemblee domenicali e la partecipazione che garantiamo, specie nel tempo estivo, c’è molto da riflettere.   E allora non ci resta che pregare: “Signore, aumenta la nostra fede!” (Lc 17,5).

Piero Puglisi